Licenziamento: il lavoratore non deve poter essere ricollocato in altre mansioni

25 Aprile 2016


Il datore che licenzi per giustificato motivo oggettivo, quindi per ragioni legate alla produzione e all’andamento aziendale, deve provare l’esistenza delle ragioni del licenziamento e l’impossibilità di ricollocare il lavoratore in altre mansioni.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è quel recesso dal rapporto di lavoro determinato da ragioni connesse all’andamento dell’azienda e dell’attività produttiva, legato quindi a ragioni esclusivamente economiche ed organizzative: ad esempio, si potrà verificare in caso di crisi aziendale che determini una necessaria riduzione di personale, oppure in caso di soppressione di un reparto a seguito di introduzione di un macchinario che automaticamente svolga le mansioni prima assegnate ai lavoratori, ecc.

Il licenziamento deve sempre costituire la soluzione estrema, essendo onere del datore, prima di procedervi, tentare di ricollocare il lavoratore in altra posizione professionale, a parità di mansioni o, se proprio necessario e con il consenso del lavoratore, con mansioni inferiori, anche presso altra sede aziendale (cosiddetto obbligo di repechage).

Nel caso in cui il lavoratore contesti il licenziamento e promuova una causa nei confronti del datore, quest’ultimo sarà quindi tenuto a provare le ragioni che hanno giustificato il licenziamento ed il rispetto dell’obbligo di repechage.

Quanto alla prova dell’effettiva esistenza delle ragioni economiche e produttive che hanno condotto al licenziamento, il datore dovrà quindi dimostrare l’intervenuta crisi aziendale, una crisi che non deve essere temporanea, ma oramai consolidata; potrà quindi a tal fine produrre i bilanci aziendali degli ultimi anni, il Libro unico del lavoro (LUL), dal quale si possa evincere che nessuna assunzione è stata fatta poco prima o poco dopo il licenziamento del lavoratore per mansioni analoghe.

Ancora, il datore potrà dimostrare l’avvenuta introduzione di processi produttivi automatizzati, che hanno portato alla soppressione del reparto o della posizione occupata dal dipendente licenziato.

Con riguardo invece al rispetto dell’obbligo di repechage, trattandosi di una prova molto più difficile da fornire dinanzi al Giudice, la giurisprudenza ha sempre ritenuto che l’onere della prova a carico del datore dovesse essere attenuato dalla leale cooperazione processuale del lavoratore: in altre parole, il lavoratore doveva indicare – in sede processuale – in quali altre posizioni possibili in datore lo avrebbe potuto ricollocare, presso la stessa o presso altra sede aziendale.

Da parte sua il datore doveva provare che quelle posizioni indicate dal lavoratore in vero non erano disponibili, ad esempio perché riguardanti lo svolgimento di mansioni del tutto diverse da quelle precedentemente assegnate al dipendente o necessitanti titoli, diplomi, patenti, non possedute dal lavoratore.

Sul punto però la Corte di Cassazione è intervenuta con una recentissima sentenza [1] che contrasta l’orientamento appena descritto e impone al datore una prova più rigorosa del rispetto dell’obbligo di repechage.

La Corte si Cassazione, infatti, ha affermato che il datore – per provare di non poter ricollocare il lavoratore in nessun’altra posizione utile – dovrà non solo dimostrare l’inesistenza di posizioni lavorative da assegnare al dipendente licenziato, ma altresì fornire in giudizio l’elenco delle assunzioni fatte nel semestre successivo al licenziamento e dimostrare per ciascuna di esse che i relativi compiti non potevano essere assegnati al lavoratore licenziato.

Considerando che il Job Act, modificando la norma del Codice civile che consente ora al datore di modificare notevolmente – con il suo consenso – le mansioni del lavoratore [2], rende ancora più ampia la scelta datoriale e la possibilità del lavoratore di indicare posizioni in cui ben poteva essere ricollocato, si ritiene che la prova circa il rispetto dell’obbligo di repechage possa diventare molto più gravosa per l’azienda.

Si attende tuttavia di capire se quella in commento sia una pronuncia isolata della Corte di Cassazione, oppure se ad essa faranno seguito decisioni analoghe, conteneti magari maggiori precisazioni in materia.

[1] Cass., sent. n. 5592/16

[2] Art. 2103 cod. civ. (nuova formulazione, valida per i rapporti di lavoro successivi al 15.03.2015): Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. [II] In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incidono sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. [III] Il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni. [IV] Ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore possono essere previste da contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. [V] Nelle ipotesi di cui al secondo e quarto comma, il lavoratore ha diritto alla conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa. [VI] Nelle sedi di cui all’articolo 2113, ultimo comma, o avanti alle commissioni di certificazione di cui all’articolo 76 del decreto legislativo n. 10 settembre 2003, n. 276, possono essere stipulati accordi individuali di modifica delle mansioni, del livello di inquadramento e della relativa retribuzione, nell’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita. [VII] Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione diviene definitiva, salva diversa volontà del lavoratore, ove la medesima non abbia avuto luogo per ragioni sostitutive di altro lavoratore in servizio, dopo il periodo fissato dai contratti collettivi, anche aziendali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi.

Fonte: http://www.laleggepertutti.it/118588_licenziamento-il-lavoratore-non-deve-poter-essere-ricollocato-in-altre-mansioni#sthash.kV9DtCcv.dpuf

Foto: http://www.unionedeiconsumatori.it/news/lavoro_e_previdenza/nazionale/pugno_duro_per_i_lavoratori_assenteisti/n395

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